La teoria del conflitto fa riferimento a un gruppo di prospettive all'interno della sociologia che spiega la società in termini di discordanza tra gruppi sociali. Queste prospettive sono contrarie al funzionalismo strutturale, che definisce la società per il suo livello di cooperazione. Fin dalla sua origine, la teoria del conflitto si è manifestata in molte forme diverse modellate dal tempo e dai pensatori che stanno dietro di loro.
La teoria dei conflitti sociali è nata e sviluppata nel 19 ° secolo. Nel loro fondamentale lavoro del 1848, "Il Manifesto Comunista", Karl Marx e Friedrich Engels sostennero che la storia della società umana è principalmente una storia di lotta sovversiva e aperta tra classi economiche. Questa teoria fu successivamente avanzata dai sociologi, come Lester P. Ward e Ludwig Gumplowicz, per comprendere le dinamiche del conflitto praticamente in ogni divisione sociale, non solo in quella economica. I teorici di questa era si concentrarono principalmente sul conflitto in tre modi: un approccio apocalittico, nel quale pone una minaccia invisibile e catastrofica alla società moderna; un approccio euristico, in cui il conflitto può essere appreso e successivamente facilitato; e persino un approccio funzionalista, come esplorato da Emile Durkheim, in cui un conflitto è una componente necessaria di una società stabile.
Nel XX secolo, grazie in gran parte al lavoro del sociologo americano C. Wright Mills, il focus della teoria del conflitto si spostò su arene disparate come classe, razza e religione alla nozione ombrello del potere, in particolare il potere nelle mani di élite. Dalla fine della Guerra Fredda, tuttavia, la teoria dei conflitti si è concentrata sulle dinamiche di potere tra i diversi gruppi sociali e con l'individuo con il consenso della società.